Mettiamo i piedi nel piatto, il rapporto tra pubblico e privato. Dunque, io credo che un servizio, per essere pubblico, non debba per forza essere erogato dallo Stato, dalla Regione o da un Comune. Un servizio, per essere pubblico, deve essere accessibile a tutti, deve essere alla portata di tutti.
Il problema è che in Lombardia il servizio sanitario non ha più queste caratteristiche. Quando tu non hai alternativa tra il pagare – a volte molti soldi – e il tenerti il tuo male, significa che il sistema è deragliato. Non è più alla portata di tutti. E questo, in Lombardia, accade di continuo. Per una parte di cittadini, in una regione ricca, questo non è un problema insormontabile. Ma per tutti gli altri?
Ok, e cosa c’entra il rapporto pubblico-privato? C’entra nella misura in cui il sistema, dal 1997 con la prima riforma Formigoni e poi con le scelte dei vent’anni successivi, è stato costruito per esaltare le possibilità di guadagno di alcune strutture private su alcune specifiche prestazioni, che attraggono pazienti da tutto il mondo e rendono tantissimo. A scapito però degli investimenti nella cura diffusa, basica, territoriale della maggioranza delle persone.
Se una volta, dalle mutue in poi, il privato – e ancora oggi tanta parte di quello che si chiama “privato sociale” – offriva una risposta solidale a chi non poteva permettersi altro, oggi il sistema è finito per ruotare innanzitutto attorno all’esigenza di massimizzare il profitto.
Noi non chiediamo la luna. Pretendiamo però che in ogni territorio pubblico e privato facciano innanzitutto ciò che serve, sulla base di un’analisi dei bisogni e di una programmazione dei servizi che li soddisfi. Non per fare innanzitutto ciò che rende, non per scegliere i pazienti e le prestazioni sulla base di ciò che è più remunerativo.
Nella riforma c’è una sola riga che migliori questa situazione? Purtroppo no. Ed è per questo che siamo qui.